Il girovagare
di Busadia
Nei vecchi rullini appartenuti a mio Padre ho
rinvenuto i negativi, tra tanti altri inediti, di cinque foto scattate in Libia
nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Li ho fatti stampare e, visto che le foto sono
tutte mosse e sfocate, ho capito il perché mio Padre non abbia ritenuto
opportuno inserirle negli album fotografici realizzati con i ricordi della sua
avventura africana.
In tutte le foto appare un personaggio che
inizialmente m’era sembrato un bizzarro ascaro (soldato coloniale), forse
ubriaco.
In seguito mi sono imbattuto in una cartolina
illustrata, di edizione inglese, che riprendeva un personaggio simile, e sotto
aveva la dicitura: “A Wandering Minstrel, of Libya” (Menestrello Errante, della
Libia).
Ancora tempo dopo ho trovato una vecchia
cartolina italiana, sempre con lo stesso soggetto, riportante la descrizione:
“Busadia, il Buffone libico”.
A questo punto, incuriosito, ho iniziato una
ricerca su questo personaggio.
Nelle città e nei villaggi libici (ma anche tunisini
e algerini), almeno fino a tutti gli anni cinquanta, si è aggirata la figura del
negro “Busadia” che, essendo vestito in modo grottesco, suscitava ilarità ed era
descritto come “buffone”.
Non sarebbe azzardato assimilare questo
personaggio, anche per gli stravaganti aggeggi che ornano il suo costume e per
la sua comicità, all’imbonitore “Pazzariello” del folklore napoletano.
Nello stesso tempo le sue mosse scimmiesche ci
permettono di paragonarlo, parzialmente, anche alla figura dello sciocco
“Narren” del carnevale svevo-alemanno.
In verità in Busadia c’è qualcosa dell’uno e
dell’altro e sull’origine di questa maschera tripolina non ci sono notizie certe, tranne
qualche leggenda.
La prima narra che tutto ha inizio quando ad un
re africano, di nome Busadia (“padre di Sadia”) che regna su alcuni territori oltre
il deserto del Sahara, i cacciatori di schiavi rapiscono la figlia Sadia vendendola
subito a commercianti che con le carovane attraversano il grande deserto.
Per ritrovarla Busadia si traveste con abiti stravaganti
e colorati che, nella loro comica miseria, nascondo la sua vera identità.
L’abbigliamento è costituito da pelli di animali
e piume di uccello; attorno alla cintura ha una gran quantità di ossi animali
legati uno ad uno con lo spago; in testa un copricapo, anch’esso di pelle,
ornato di conchiglie e specchietto.
Sul naso è infilato il lungo becco di un
uccello e al mento una barba finta fatta di peli di cammello e crini di
cavallo.
In una mano ha un piccolo bastone con il quale
batte una “danca”, una sorta di tamburo, che sostiene con l’altro arto.
Tutti gli accessori, che rendono stravagante la
sua persona, producono dei suoni quando si sposta e quando danza al ritmo del
tamburo che ha con sé; la maggior parte delle sue mosse sono fatte per
spaventare i bambini.
Così abbigliato Busadia inizia un lungo girovagare
per cercare la figlia e si dirige sulla costa settentrionale dell’Africa dove sa
che si trovano grandi mercati di schiavi.
Qui, nel suo gironzolare, si intrattiene con
tutti coloro che incontra; chiede, prega e distribuisce consigli; bussa alle
porte e la gente gli dà quel che può, cibo o soldi.
Attraversa città e villaggi danzando e suonando
il suo tamburo, anche se non tutti capiscono granché delle sue canzoni, ma lui continua
a vagare, a danzare e a suonare il tamburo; spera che un giorno, da qualche
parte, sua figlia lo possa sentire.
Nessuno sa da dove sia venuto, alcuni dicono
dal Mali, altri dal Niger, di certo c’è che ha la pelle nera; molto, ma molto
scura.
Altra leggenda, tipicamente tripolina, ci narra
che Busadia è un negro del Sudan costretto dal bisogno a lasciare il suo paese
e mettersi in viaggio verso la Tripolitania.
Durante il viaggio moglie e figlia, che lo
accompagnano, lo sollecitano ad inventarsi un mestiere che permetta loro di
sopravvivere.
Viaggiando trova un accampamento di
arabi ai quali vende alcuni oggetti della moglie; con il ricavato compra una
quantità di ossi, spaghi, bastone, tamburo e tutto quanto necessario a
travestirsi come già descritto.
Questo abbigliamento e tutti questi accessori
che ciondolando producono strani suoni e attirano la curiosità di chi incontra;
tutti ridono della sua danza e del battere sul suo tamburo.
Solo mettendo in atto questi accorgimenti il suo nuovo mestiere riesce a procurargli cibo e denaro.
E queste ingegnosità lo avvicinano molto alle motivazioni che portarono alla nascita del "pazzariello" napoletano; vano sarebbe ricercare altre origini o cause.
In alcuni villaggi della Libia ci sono canti
tradizionali che parlano di lui e che i bambini intonano quando lo scorgono da
lontano; nel vederlo arrivare subito corrono verso di lui e, danzando, lo
circondano.
Poi si dividono in due gruppi e cantando recitano
una sorta di dialogo che ha come soggetto questo “menestrello” e la sua storia.
Il primo gruppo di bimbi canta:
“Wein housh
busadia masal geddam shueia?” - “Dov’è la casa di Busadia?”
Il secondo gruppo risponde:
“È
lontana! Molto lontana” - “Ancora più lontana”.
A Tripoli i piccoli sono terrificati nel
vederlo; si dice che mangia i bambini, nonostante sia innocuo folklore.
Abitualmente le mamme sono solite minacciare i
più capricciosi avvertendoli che chiederanno a Busadia di portarseli via se non
andranno presto a dormire.
Tutti lo ricordano passare per vicoli e viuzze della
città in cerca di “crintallah” (elemosina) e nel vederlo, per vincere le loro
paure, gridano:
“Busadia
gana gana” – “Busadia vince, vince”
Per anni la tradizione resta in vita, qualcuno
si veste e danza come lui ma poi, proprio come dal nulla è apparso, nel nulla
sparisce.
Chissà dove è andato a morire, dopo tanto
girovagare.
Dov’è la
casa di Busadia?
Nessuno
lo sa!